Disturbi alimentari: cosa frena dal cercare aiuto?
Ecco i maggiori ostacoli e le principali spinte al trattamento
Abbi buona cura del tuo corpo, è l’unico posto in cui devi vivere (Jim Rohn)
Fare il primo passo e stabilire un contatto per ottenere supporto psicologico può rivelarsi un’impresa tutt’altro che semplice. Diverse ragioni possono spingere a cercare un aiuto, e altrettante possono frenare la scelta di affidarsi ad un professionista o ad un servizio di salute mentale.
Questo articolo prende in esame cosa dice la ricerca rispetto ciò che ostacola le persone che soffrono di disturbi alimentari (anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbi da alimentazione incontrollata) a cercare un aiuto e, viceversa, cosa le può spingere maggiormente a farlo.
Un gruppo di ricercatori dell’Australian National University, in collaborazione con la clinica universitaria di Heidelberg, Germania ha di recente pubblicato sull’International Journal od Eating Disorders una revisione sistematica su questo tema. Gli autori hanno cercato, attraverso la letteratura scientifica attualmente esistente, quali fossero i fattori che maggiormente ostacolano, piuttosto che favoriscono, la richiesta di aiuto quando si soffre di un disturbo alimentare.
Gli ostacoli maggiormente percepiti sembrano riguardare:
- lo stigma e la vergogna per la propria situazione,
- la negazione piuttosto che l’incapacità di percepire la gravità del proprio problema,
- barriere di tipo pratico (es. i costi del trattamento),
- una bassa motivazione al cambiamento,
- un atteggiamento negativo nei confronti della ricerca di aiuto,
- la mancanza di supporto/incoraggiamento da parte degli altri a cercare aiuto,
- una scarsa conoscenza delle fonti di aiuto disponibili sul territorio.
Per quanto riguarda invece i fattori che risultano maggiormente indicati come ‘facilitatori’ della ricerca di aiuto troviamo:
- la presenza di altri problemi psicologici o grande stress emotivo,
- preoccupazioni riguardanti la propria salute fisica.
Questi fattori risultano confermati anche da un’ulteriore revisione sistematica (Regan et al 2017), pubblicata sulla medesima rivista, che individua anche alcuni possibili moderatori tra cui l’età, l’appartenenza o meno a minoranze etniche, il tipo di disturbo alimentare, la presenza/assenza di specifici comportamenti associati al disturbo (es. l’uso di lassativi), il tempo trascorso in liste di attesa per il trattamento. L’Indice di Massa Corporea, invece, non risulta particolarmente predittivo della ricerca di un trattamento.
Cosa si può fare, dunque, alla luce di questi risultati, per aiutare chi soffre di un disturbo alimentare a chiedere un aiuto professionale?
Come si può notare dalle barriere elencate qui sopra, e come accade in quasi tutti i disturbi mentali, intraprendere un percorso di trattamento implica, per chi ne soffre, una minima consapevolezza del proprio problema ed un discreto grado di malessere percepito. Senza queste due condizioni è molto difficile sentirsi motivati a chiedere aiuto e mantenere tale motivazione durante un processo di cambiamento. Questo è il primo elemento da riconoscere quando ci sentiamo preoccupati per un familiare o un amico che ci sembra non stare bene: non possiamo sostituirci a lui/lei nel decidere responsabilmente di prendersi cura di sé stesso.
Tentativi di obbligare o controllare chi amiamo affinché ‘si faccia curare’ spesso finiscono per sabotare l’esperienza del trattamento, facendo vivere all’interessato/a un’esperienza di fallimento che potrebbe pregiudicare la fiducia nell’aiuto professionale in futuro (della serie: “tanto non ha funzionato in passato, perché adesso dovrebbe essere diverso?”). Questo non significa certo restare muti a guardare chi amiamo soffrire: ricordiamoci solo che quello che può sembrare il ‘momento giusto’ per noi, potrebbe non coincidere con quello che pensano i diretti interessati, e dobbiamo rispettarlo. Parlavamo prima di malessere percepito: naturalmente tanto più sale la preoccupazione ed il disagio emotivo (o anche fisico) causato dal disturbo alimentare, tanto più chi ne soffre sente la spinta a chiedere un aiuto. Se abbiamo motivo di ritenere che la salute di chi amiamo sia in estremo pericolo, rivolgiamoci ad un professionista (es. il medico di famiglia) prima di prendere iniziative non necessarie o magari infruttuose.
Ricordiamoci, inoltre, che una delle barriere più importanti è legata allo stigma e alla vergogna. Non sempre il problema non esiste perché ‘non si vede’: a volte ammettere di avere un problema è fonte di grande imbarazzo, timore di essere giudicati negativamente, etichettati come ‘pazzi’ o ‘squilibrati’. Vi fareste aiutare se foste convinti che chi avete di fronte pensa proprio queste brutte cose di voi? In questo caso, dunque, il semplice fatto di offrire il proprio ascolto, senza giudicare, può rappresentare un forte elemento di aiuto per chi soffre. Non è detto che la migliore strategia sia sempre l’interventismo e la ricerca affannata di una soluzione o una cura: a volte l’aiuto più significativo che possiamo iniziare a dare è semplicemente quello di accettare la sofferenza altrui, capirla, empatizzare con le emozioni negative dell’altro, fargli sentire che noi ci siamo, quando e se vorrà aprirsi, che non è ‘sbagliato’ stare male, tantomeno una colpa.
Veniamo poi agli ostacoli di tipo pratico. Una volta che si ha deciso di affrontare il problema, a chi si chiede aiuto? Bella domanda. La difficoltà maggiore oggigiorno è capire cosa scartare. A chi mettiamo in mano la nostra salute mentale, il nostro benessere psicologico? Evitiamo di abboccare a chi ci promette il massimo risultato con il minimo sforzo: ricordiamo che se esistesse la bacchetta magica, oramai ne esisterebbe già una app per smartphone e non ci sarebbe bisogno di qualcuno per essere aiutati! Per iniziare possiamo rivolgerci al medico di base il quale, dopo avere escluso malattie di tipo esclusivamente fisico, ed aver valutato gli effetti del disturbo alimentare sul corpo ed il suo funzionamento (anche tramite esami specifici), potrà consigliarci quali sono le opzioni di cura. Sempre al medico di base possiamo chiedere espressamente indicazioni rispetto i servizi sul territorio in grado di fornire un supporto psicologico per il problema presentato. Esistono servizi pubblici, privati e convenzionati. Esistono poi, all’interno di questi, servizi specifici per i disturbi alimentari e servizi meno specifici. Prendiamoci il tempo di valutare le opzioni con calma: i costi, i tempi, le distanze, l’offerta. Valutiamo come ci sentiamo accolti quando ci presentiamo ad un primo colloquio, facciamo domande rispetto ciò che non ci è chiaro. Facciamoci sempre consigliare da professionisti e supportare da persone ci conoscono a fondo e di cui ci fidiamo.
Sebbene le ricerche qui esaminate si riferiscano in modo specifico ai disturbi alimentari, queste considerazioni possono tornare utili anche per altre condizioni di disagio. Cercare aiuto quando si soffre non è sempre facile, i motivi sono diversi e ciascuno affronta il proprio malessere in modo unico: questa è la prima cosa da accettare quando ci troviamo di fronte alla sofferenza altrui, riconoscendole piena dignità. La ricerca di soluzioni arriva successivamente: per quella è necessario affidarsi ai servizi/professionisti di competenza, non dimenticandosi di supportare chi soffre durante questo percorso di cambiamento.
Riferimenti